Il sostituto

Roberto Beccantini29 ottobre 2023

La Roma era decimata, e Mourinho, squalificato, addirittura in tribuna stampa, con i «prostituti» del vecchio testamento. In campo, «lui»: Romelu Lukaku, l’ex re della foresta. Fischiato, uheggiato, insultato: capita spesso, quando si giura eterno amore e poi si tresca di nascosto (con una, in particolare). Il popolo non dimentica. Inzaghino lo aveva affidato ai rostri di Acerbi. Mou aveva parcheggiato il pullman dalle parti di Rui Patricio: tutti dentro, tranne il belga. Affiancato nominalmente da El Shaarawy e libero d’inventarsi qualcosa. Cancellato dal cuore dell’ordalia, sarà più utile in difesa che in attacco.

Dal torpedone, salvo le scaramucce conclusive, gli occupanti uscivano una volta sola, dopo un’oretta. E Cristante, di testa, impegnava strenuamente Sommer. Una boccata d’aria, il tempo di una pipì volante. Per il resto, Inter. Sempre Inter. Non una versione trascendentale, ma: traversa all’inizio (di Calhanoglu) e un’altra alla fine (di Carlos Augusto). In mezzo, parate del portiere (una, soprattutto, su Thuram), bolge dantesche e un assedio pressante, anche se non sempre ficcante. Asserragliati all’interno del bus, Mancini e Ndicka, Cristante e Paredes armavano un catenaccione che pendeva esclusivamente dalla parte di Dumfries, atteso da uno Zalewski che gli concedeva muscoli e falcate.

Resistere, resistere, resistere. Fino al minuto 81. Quando Dimarco, dalla sinistra, la sua fascia, ha imbeccato Thuram e Marcus, sotto gli occhi di papà Lilian, ha anticipato Llorente e freddato la Lupa, zavorrata, fra parentesi, dal giovedì di Europa League. Uno a zero: quanto basta per tornare in vetta, soli. Thuram: il sostituto di Lukaku. «Il destino mescola le carte e noi giochiamo», parole e musica di Schopenhauer. Agli ordini.

Dal Clasico a Cambiaso

Roberto Beccantini28 ottobre 2023

Chiedo venia se prima di collegarmi con lo Stadium spendo due righe sul Clasico tra Barcellona e Real. Non uno show da rimbalzare sul divano, ma sempre un’idea. Hanno vinto i blancos in rimonta, 1-2: Gundogan in avvio, poi doppietta di Bellingham, l’inglese di 20 anni che unisce il calcio di ogni tempo e di ogni moda. Futuro, in quanto passato (Di Stefano). E presente infinito.

Ciò scritto, eccoci a Juventus-Verona 1-0. Dal Clasico a una baraonda. Hanno deciso i cambi di Allegri: Milik, che ha preso il palo; Cambiaso, che in mischia ha trovato una cruna in cui infilare il cammello di un risultato legittimo. Era il 96’. La fortuna dell’attimo non deve far dimenticare la iella di altri momenti. I due gol di Kean, per esempio: il primo, molto bello, annullato dal Var per un tacco in fuorigioco; il secondo, di testa, invalidato per una sbracciata, a monte, a Faraoni, che l’arbitro coglieva dopo processione al video; la «parata» dello stesso Faraoni su Chiesa, l’ennesimo panchinaro coinvolto nell’avanti Savoia del testa o croce.

Sul piano del tabellino (primi per una notte, dopo centinaia di giorni), molto. A livello di gioco, le solite cose: venti minuti pimpanti, Madama a cassetta ma dominio al passo, troppo lento. Piano piano, l’Hellas usciva dal guscio, ci provava, si faceva audace. Omerico il duello fra l’invasato Gatti e il polifemico Djuric. E provvidenziali i guanti di Szczesny su Bonazzoli.

Costretta a far gioco, la Vecchia pagava i tradizionali dazi di un possesso sterile e una fantasia piatta. Ripresa da rumble in the jungle. Usciva Kean, e solo il giallo dei nervi poteva giustificare il sacrificio suo e non di Vlahovic, il peggiore. Tiri su tiri, mischie su mischie; e, prima dell’episodio-chiave, un’occasione sprecata da Yildiz, classe 2005, l’ultimo della nidiata. Sempre corto muso, sì, ma diverso.

Il Parco di un principe

Roberto Beccantini25 ottobre 2023

Tamburi di Champions. Il Parco di un principe (Mbappé, ça va sans dire) e di un principino (Zaire-Emery, classe 2006, medianino tutta birra): e così Luis Enrique si annette un povero Diavolo che non segna più e soffre le grandi: 3-0. Monsieur Kylian: cornice per una ventina di minuti e, d’improvviso, quadro. Incrocio dei due Ronaldi, guarda negli occhi Tomori, lo disarma e, di destro, infila in buca d’angolo. Più un palo come mancia. Ah, gli schemi.

Daranno la colpa a Pioli. Adli subito invece di Krunic? Forse. Le cicatrici di Giroud si sentono e Leao sta diventendo una locandina da edicola: svolazza che è una meraviglia, attira i passanti ma gol, zero. Ci ha provato, il Milan: di Donnarumma, però, non ricordo parate fenomenali. Solido Skriniar, leggero Hakimi. Il Paris non è più un album di figurine. Se il raddoppio di Kolo Muani nasce da un pisolo su angolo, il tris del coreano Lee è un gioiello d’azione, con Zaire-Emery ancora protagonista.

Capita, quando Sarri trova un Sarri più bravo. Il 3-1 che il Feyenoord di Slot infligge alla Lazio va oltre il risultato. Per un tempo sembra la sfida tra una Red Bull e un camion. Gli olandesi dominano ovunque e comunque, soprattutto a metà campo, segnano con Gimenez e Zerrouki, isolano Immobile, non mollano una zolla che è una. I cambi danno un po’ di benzina all’Aquila, due in particolare: Guendouzi al posto di un frastornato Rovella (21 anni, nessuno nasce imparato) e Castellanos per Ciro. Qua e là emergono briciole di riscossa, ma proprio briciole, dal momento che l’implacabile Gimenez, Messico e nuvole, timbra il terzo.

L’orgoglio e un rigore-strenna (di Lopez, non dell’arbitro) offrono a Pedro un dischetto di consolazione. Con l’Atletico la Lazio aveva pareggiato in rimonta (Provedel), e sempre in rimonta aveva fulminato il Celtic (Pedro). Troppo passiva, stavolta. Il calcio olandese può vincere o perdere, ma rimane un’idea. Sempre.